Il mare ha da sempre una natura intrinsecamente ambivalente, vitale e mortifera.
Per rintuzzare, arginare, se possibile scongiurare tale imponderabilità l’uomo ha cercato di sviluppare strategie adattive sia in funzione propiziatoria, sia, soprattutto, per affrontare la pericolosità di una tempesta, il vortice devastante di una tromba marina, il possibile naufragio salvando la propria vita mediante il ricorso a pratiche di natura magico-religiosa. Dove si arresta il sapere empirico, il saper fare di un uomo di mare affinatosi nel tempo, dove la propria pur sapiente ed elaborata esperienza più nulla può dinnanzi a pericoli soverchianti, la difesa slitta sul piano di riti che chiamano in causa la sfera divina, popolata di santi ma pure da demoni. Il marinaio cerca quindi nel sovrannaturale le risposte, gli interventi possibili per guadagnarsi la salvezza.
Più nel dettaglio, come ricordano Lombardi Satriani e Meligrana, la risposta di natura pratica e realistica con cui si fronteggia il pericolo attingendo alla propria esperienza pratica di naviganti è parimenti irrelata a procedimenti simbolici che ne accentuano l’efficacia complessiva. In parallelo anche il rituale apotropaico pesca in un armamentario fatto di oggetti e strumenti pensati per pescare e navigare rifunzionalizzandoli all’occorrenza in chiave magica [Lombardi Satriani L.M., Meligrana M. 1985, 153, 162].
All’orizzonte di un’empiria professionale efficace nella gestione consueta e quotidiana della propria professione si aggiunge un orizzonte mitico e magico che fornisce le risposte utili per articolare e officiare una ricca congerie di riti specialistici, ovvero utili per fronteggiare questo o quel rischio. Il mito ha così la funzione di garantire efficacia a interventi variamente ritualizzati ribadendosi non solo e non tanto quale semplice e disgregata memoria di un passato arcaico ma quale strumento di riorientamento culturale efficace ancora oggi, in epoca di tecnicismi digitali che sorreggono e surrogano sempre più i know how tradizionali. In questa stretta relazione si getta un ponte tra dimensione mondana e oltremondana obbligate a cooperare per un fine salvifico a cui chi naviga e pesca non rinuncia. Si pensi alle immagini devozionali, ai corni, al ramoscello di ulivo e al rametto di palma intrecciata che “presenziano”, soprattutto in plancia, alla conduzione del natante, del peschereccio a strascico, della cianciola, tutti simboli di un orizzonte magico-religioso che il marittimo imbarca sul proprio mezzo di pesca e lavoro, ieri come oggi.
Che a salvarsi siano barca e reti innanzitutto
Chi naviga ama la sua barca quanto la sua stessa vita sa quanto sia necessario, anzi, imprescindibile, proteggere entrambe ad ogni costo. Un numero veramente ragguardevole di usanze difensive e propiziatorie riguarda, come è facile intuire, non tanto e non solo l’uomo di mare, ma mezzi e strumenti del suo lavoro da cui, alla fin fine, dipende la sua medesima sopravvivenza. Magna pars di tutti codesti rituali è quella rivolta alla difesa dell’imbarcazione.
Imbarcandoci su un qualsiasi tipo di natante, dal peschereccio all'aliscafo, possiamo dunque constatare come ancora oggi sia presente l'usanza di porre immagini di santini o cornetti di corallo nella cabina del comandante, in timoneria, a prua e a poppa, elementi scaramantici magico-religiosi posti sull'imbarcazione per attirare la buona sorte. Il rapporto tra il pescatore e il mare, dunque, passa proprio attraverso la mediazione di oggetti caricati di potere difensivo come pure di immagini di Madonne e Santi a cui si è specialmente devoti, il tutto in una radicata e pacifica convivenza tra elementi sacri e profani. Molti e difformi, ma mai casuali nella scelta dovuta alla loro pregnanza simbolica, sono gli oggetti apotropaici utilizzati nella tradizione marinara italiana: riscontriamo cipolle, corna di bue, ferri di cavallo, zampe di coniglio, coltelli, chiodi, grossi ami, murici preferiti per le molte punte della conchiglia, sacchettini ripieni di sale medagliette dorate con le effigi di divinità, altrimenti poste in cornice, rosari e molti altri oggetti ancora. L'usanza di collocarli sulla barca, seppur maggiormente sentita un tempo, non è andata persa. Il loro scopo è quello di allontanare il malocchio o la malasorte e, sempre in vista del medesimo scopo, in passato si usava sistemarli non solamente sulle imbarcazioni, ma pure nei cantieri navali dove esse venivano costruite. Nel cantiere dei fratelli Provvidenti a Milazzo, ad esempio, è stato trovato un altarino con alcune immagini di Santi posti in alternanza tra una cipolla, corna di bue, ferri di cavallo e sacchettini di sale. Similmente, in Turchia, a Fethiye, è onnipresente l’occhio, realizzato in pasta di vetro e affisso sia nei locali dei cantieri prospicienti l’area portuale sia sui caicchi impostati sugli scali e appesi all’estremità superiore dei dritti di prora di tali belle imbarcazioni tradizionali. L’occhio che “guata” il mare, che mentre la barca incede ne scruta superficie e profondità, che, vista da sotto, assimila la carena con la sua coppia di occhi di cubia a un pesce, è forse una delle più diffuse icone del presente e di un lungo passato, condivise dalle più disparate marinerie, non soltanto di casa nostra e del solo Mediterraneo.
Come si intuisce la prua è più spesso chiamata in causa nelle procedure difensive perché è proprio a essa che tocca il compito, «rischioso», di incidere e quindi profanare la superficie marina, è essa che per prima deve fronteggiare i marosi. Esisteva nel passato e ancora nella prima metà del Novecento l'usanza di porre una pelliccia di animale, il «pelliccione», in funzione apotropaica, sui trabaccoli dell'Adriatico. Serviva per allontanare la malasorte e richiamava l'antica usanza di legare attorno alla parte sommitale della prua, al momento del varo, il vello di un animale sacrificato. Evidente il richiamo al vello d’oro che Giasone, a capo dei suoi valorosi argonauti, espose nel medesimo punto della sua imbarcazione a remi e vela. Anche nel Tirreno qualche gozzo presenta una tavoletta ovoidale fissata sulla prua, talora dipinta di rosso, riconducibile sia a Giasone sia al fallo. Palle di stracci colorati, pelli, dischetti di legno sono parimenti evidenti in dipinti settecenteschi e ottocenteschi che raffiguravano affollate teorie di imbarcazioni all’ormeggio nei porti borbonici.
Anche le murate delle barche da pesca venivano e vengono decorate di pitture protettive. All’Argentario due nuovi gozzi per la pesca del tramaglio ostentano sui masconi prodieri il santo a cui l’equipaggio è devoto, dipinto con attenzione ai particolari e circondato da una cornice. Le impavesate erano altre superfici spesso dipinte con corni, sirene dalle lunghissime code intrecciate e immagini di santi come notato in alcuni gozzi messinesi. Dipingere inoltre un cavalluccio marino sui lati dell'imbarcazione è una pratica riconducibile ai poteri magici che la tradizione attribuisce a questo animale, potente amuleto contro i malefici. Non sfuggono al pennello di chi vuole portare con sé in navigazione le figure protettive predilette anche altre zone dell’imbarcazione. Ci è capitato di osservare un peschereccio per la pesca del tonno con reti di circuizione di stanza in Liguria, a Savona, che ostentava, è il caso di dirlo, un grosso ovale ligneo con l’effige di una Madonna, fissato esternamente alla plancia, sopra di essa.
Il colore e i simboli impiegati per proteggere e al contempo abbellire lo scafo si ricollegavano quindi a tradizioni propiziatorie di grande valore simbolico e mentre a prua si raffiguravano in prevalenza immagini volte a difendere lo scafo dalle insidie della navigazione, a poppa trovavano posto rappresentazioni augurali per una buona pesca.
Non possiamo inoltre non menzionare le policrome polene, statue decorative poste a prua in modo particolare delle navi a vela, molto diffuse tra Settecento e inizi del Novecento. L’esibizione di figure lignee a prora ha dei precedenti comunque più antichi, presso vichinghi, greci e romani. Ostentare una polena rimandava al prestigio e all’importanza dell’armatore o del comandante che, dunque, poteva permettersi il lusso di esibire cotali policrome statue spesso ricche di dettagli. La polena assolveva però anche a funzioni apotropaiche. Il veliero di Guglielmo il Conquistatore aveva una prua con una testa di leone. La danese Sweyn Forkbeard ne possedeva una a forma di dragone. La prima polena della storia britannica pare fosse quella della Trinity Royal del 1416 , che portava il leopardo inglese reale. Nel XVI secolo quelle scozzesi erano collegate sovente al nome della nave. La nave Unicorn, ad esempio, possedeva una polena a forma di tale fantastico animale. La barca francese Roi Soleil , sempre a prua, mostrava una sirena. A Calcutta la Java, varata nel 1813, era arricchita da una polena che raffigurava una donna con mani congiunte in preghiera mentre, assolutamente meno «casta» appariva la polena del Cutty Sark rappresentante una donna formosa a petto nudo, non la prima e neppure l’ultima polena, vuoi in veste femminile, vuoi in guisa di sirena, caratterizzata dall’ostentazione di procaci seni nudi, in qualche modo seducente «consolazione» per equipaggi soltanto maschili lontani dai loro affetti e dalle loro donne anche per mesi [Moro 2019].
Una pratica molto sentita, oggi come in passato, è quella della benedizione dell’imbarcazione. Il marinaio, prima di affidare la propria vita all' imbarcazione usa battezzarla, al momento del varo, cioè quando la barca tocca l'acqua per la prima volta. In passato si usava sacrificare un animale, tagliargli la gola cospargendo la chiglia del suo sangue quale atto propiziatorio. Oggi, invece, si usa rompere o stappare una bottiglia di spumante sulla prora, atto accompagnato spesso dalla benedizione del prete. Periodiche ristrutturazioni del natante consigliano di reiterare la benedizione.
Anche l’imposizione del nome a un nuovo legno registra istanze di natura magico-religiose. Diffusissima è l’usanza ben radicata tra la gente di mare di attribuire al natante il nome o i nomi di un santo, ad esempio Pietro e Paolo assieme. In ciò si avocava e si evocava la loro protezione. Alcuni pescatori dell'arcipelago eoliano ci raccontano che era abitudine conferire il nome della propria moglie alla barca anteponendo l'appellativo del Santo.
Nell'inseparabile sovrapposizione tra dimensione equorea e dimensione sovrannaturale, essa investiva gli stessi sistemi di pesca. Durante la pesca dei tonni era frequente intonare canzoni in coro nel momento in cui veniva issata la camera della morte, non solamente per sincronizzare i movimenti dei partecipanti, ma anche, chiaramente, per propiziarsi la divinità. Nella Iamola ad esempio, uno dei canti di tonnara più famosi di tutta la Sicilia, ci sono degli espliciti riferimenti a Dio, alla santissima trinità e ad alcuni Santi.
Ai tempi in cui la tonnara di Milazzo era in funzione, ad esempio, si usava immergere energicamente per tre volte una statuetta di Sant' Antonio da Padova nell'acqua, subito dopo il calo delle reti, per propiziare la pesca del tonno. "Ah 'ntall'acqua ti dubbamu" si usava dire quando i tonni non volevo entrare nelle reti. Ulteriori testimonianze, di ben diverso tenore, riportano che era abitudine, ancora intorno agli anni Settanta del Novecento, nei casi in cui l’imbarcazione andava incontro a infortuni ripetuti, o la pesca era assai magra, far salire a bordo una prostituta invitandola a urinare al centro della barca per togliere tutte le fatture e i malocchi che vi si erano annidati. Sappiamo che ricorrevano a questa procedura i rais a capo di quelle tonnare siciliane che non catturavano pesce a sufficienza [Quilici 1976. 13].
Riti di passaggio per farsi uomo di mare
Altrettante pratiche diffuse presso le popolazioni alieutiche e marinare delle epoche più diverse e alle più distanti latitudini sono quelle che investono la persona fisica, promuovendone e sancendone lo statuto di uomo di mare, di soggetto che deve dimostrare alla comunità di appartenenza di avere i numeri per navigare e pescare.
I rituali di iniziazione legati alla sfera marina arrivano a coinvolgere tutte quelle figure che da sempre vivono in un rapporto inseparabile e simbiotico con il mare. In Papua Nuova Guinea ad esempio un rituale di iniziazione prevede che i giovani destinati ad assumere lo status di adulti vengano lanciati tra le fauci di un grosso squalo feticcio [Quilici 1976, 186,188].
In tutt’altri ambiti la celebre Line Crossing Ceremony prevede che il giovane passi dalla condizione di novizio a quella di marinaio a tutti gli effetti nel momento i cui si trova per la prima volta ad attraversare la linea dell’equatore sulla nave su cui è imbarcato. Il novizio, chiamato pollywogs, usa quindi render grazie a Nettuno, dio dei mari, divenendone un suo legittimo figlio, uno shellback. Questa tradizione, presente presso molteplici marinerie, viene praticata ancora oggi e talvolta utilizzata in ambito croceristico come intrattenimento per i passeggeri. La cerimonia, fortemente teatralizzata, inizia il giorno prima dell’attraversamento dell’equatore e può durare l'intera notte: il novizio è sottoposto a domande, prove fisiche e nel momento cruciale, se si ritiene che abbia superato la prova, viene ammesso alla «corte di Nettuno» per mutare infine la propria condizione, per rendere palese senza ombra di dubbi la sua vocazione marinara.
Festeggiare e sposarsi il mare
Tra le modalità con cui la gente usa propiziarsi il mare troviamo inoltre un significativo e multiforme apparato festivo. Molte cerimonie evocano lo sposalizio del mare. Sono sovente associate a una processione che percorso il paese procede e continua in mare. Un peschereccio, comunque un natante tra i migliori del luogo e tirato a lucido, con a bordo autorità religiose e civili, assieme a esponenti delle congreghe locali, prende il largo seguito da una teoria cospicua di ulteriori imbarcazioni. Sulla barca madre è stata fatta salire l’effige del santo o della madonna venerata in quei luoghi che presenzierà e sacralizzerà il rito. Segue quindi il lancio in mare di una corona floreale aspersa e benedetta o pure di un anello. Se la corona è spesso in memoria dei defunti in mare, la sua medesima forma circolare viene pure intesa come una vera imposta alla dimensione equorea. Stabilisce un legame forte tra uomo e mare, un sacro vincolo che nessuno dovrà profanare. La medesima rotta seguita dalle barche in processione definisce un cerchio, circoscrive una porzione circolare di acqua salsa, sancisce i perimetri in cui nulla di male dovrà mai accadere.
Ben nota è la cerimonia dello sposalizio con il mare a Venezia, durante la festa della Sensa, nel giorno dell'Ascensione. In passato, in quella ricorrenza il doge lasciava cadere un anello consacrato in acqua in funzione di ribadita riconciliazione con esso. A Milazzo troviamo il rituale della Berrettella nel corso del quale si usa gettare in mare una ghirlanda di fiori, simbolo che richiama il berretto di San Francesco, accompagnato dalla recita di alcune preghiere marinare. Il gesto del gettare in mare la ghirlanda evoca il culto della reliquia come pure la riunione con il santo e con il mare stesso. Nella penisola sorrentina tra primavera ed estate si susseguono le processioni a mare dei paesi che si affacciano su quel litorale. Protagonista è ancora la ghirlanda e la statua del santo a bordo. Cosa del tutto simile accade a Porto Santo Stefano. L’elenco di similari processioni con varianti locali è molto lungo, e citarne ancora, inevitabilmente una a discapito di un’altra, avrebbe poco senso. Ci preme invece sottolineare gli intenti di tali manifestazioni e, in modo particolare, il tentativo di far sì che tra divinità coinvolta nel rito e dimensione marina si stabilisca, e ogni anno si riconsacri, un rapporto empatico, tattile, fisico, di assoluta prossimità, officiato dall’uomo che quel patto porrà al riparo da sciagure. Sottesa ma presente è perciò la finalità ultima di codeste feste, quella di implicare la divinità direttamente nel mare. La madonnina, il santo, attraverso il loro tramite, la statua, il dipinto, debbono sapere cosa significhi fare un mestiere di mare, quali gravi rischi comporti, rischi di cui anche la divinità deve essere dunque avvertita e cosciente. In casi di colpi di mare che sorprendevano in mare le barche da pesca di questa o quella località mettendo a repentaglio la vita degli equipaggi, donne, giovani e anziani da terra non rimanevano con le mani in mano: subito si officiava una messa, si pregava con ardore ma se tutto questo non placava i marosi si agguantava la statua del santo riottoso e la si scagliava in acqua, tra i flutti, perché potesse direttamente rendersi conto della criticità della situazione. Cronache locali ci raccontano di tali episodi, limitatamente alle nostre conoscenze, dalla Toscana alla Campania, alla Sicilia.
Non solo la penisola italiana abbonda di festività legate agli innumerevoli santi, ma in tutto il mondo si può assistere ad eventi simili. Navigatori portoghesi del XVI secolo portavano sulle loro barche la statua del santo a cui erano devoti, assicurata all'albero maestro. Se però cadeva il vento e le vele pendevano inerti allora i marinai prendevano a frustate l’icona minacciando di gettarla in mare e con essa di disfarsi della divinità poco «collaborativa». Tornato il vento, assieme a esso si tornava serenamente a venerare il santo.
A Salvador, in Brasile, si festeggia la Festa di Yamanja, dea del mare, rappresentata oggi dalla statua della Madonna, festeggiata con fiori donati al mare, canti e preghiere. La sua statua, al finire della cerimonia, viene abbandonata sulle onde dell'oceano perché abbia «contezza» della sua pericolosità e perché in tal modo la sacralità che dalla figura promana meglio si irreli e si propaghi, per contatto diretto, alla dimensione equorea. Esperienza simile tocca, se così si può dire, a Santa Sara la Nera festeggiata dai popoli gitani presso Saintes-Maries-de-la-Mer. La statua viene condotta in processione fin sul mare e qui immersa per tre volte in acqua in un rito di purificazione ove il mare mentre accoglie la santa imbibendosi della sua sacralità, deve «stare al gioco» obbligandosi a un ruolo mondante e salvifico.
Evidente ci pare come alla instabile liquidità del mare la gente che vi vive e pesca, che lo naviga articoli risposte altrettanto liquide e plastiche cercando di mettere in campo strategie di accerchiamento e controllo della dimensione equorea che miscelano assieme elementi tra i più diversi, pratici ed empirici, magici e religiosi.
1) Quando in Turchia come in molte marinerie di altri paesi i carpentieri completano l’ossatura dell’imbarcazione, ancor prima che le ordinate vengano ricoperte dal fasciame, essendo oramai forme e dimensioni dello scafo ben definite e chiarmente intuibili, quando insomma una nuova imbarcazione è nata, in questo caso un caicco, al vertice della prua subito si colloca un occhio che da quel momento inizierà a vigilare su «gestazione» e completamento del natante. Dopo il varo un occhio, o una coppia di occhi rimarranno stabilmente a bordo, collocati in punti diversi dell’imbarcazione per tutelarla durante la navigazione.
2) La prua che per prima incontra l’onda, alla quale tocca il compito di violare la superficie marina per consentire il passaggio dello scafo, deve guardarsi intorno, sondare e individuare possibili pericoli emergenti dalle profondità marine. Sui masconi prodieri di dritta e sinistra si collocano occhi scolpiti nel legno come quelli in uso presso le marinerie adriatiche qui raffigurati. In altri casi sono dipinti, in altri casi ancora sono fatti coincidere con gli occhi di cubia da cui la catena dell’ancora, assicurata all’argano, scende in mare quando si da fondo all’ancora. In tal senso il foro nel fasciame, in guisa di pupilla, viene completato dipingendo attorno a essa rime palpebrali e finanche ciglia.
3) Nell’ultimo decennio del Settecento il pittore tedesco Jakob Philipp Hackert, su commissione dei Borbone, realizzò molteplici dipinti dei siti reali del Regno di Napoli. Molti furono i porti raffigurati tra i quali quelli di Napoli, Palermo, Siracusa, Taranto, Brindisi, Manfredonia, Gaeta e Alimuri sulla costiera sorrentina da cui proviene il particolare dell’imbarcazione qui riprodotta. La cura assoluta per i particolari, resi con sorprendenti capacità calligrafiche, cifra precipua di questo artista, ci consente di apprezzare nel dettaglio i motivi che ornano la prua di una barca da pesca con chiare finalità protettive. Il dritto termina in alto in un globo, forse scolpito nel legno, forse fatto di stracci legati tra loro, chiaramente riecheggiante il vello d’oro che Giasone collocò nella medesima posizione sulla sua imbarcazione. Segue, più in basso, in corrispondenza del mascone prodiero, una sirena e quindi un giglio. Si ammicca alla creatura marina per tenersela buona mentre il giglio, di rinforzo, quale simbolo di pace si fa auspicio di navigazioni in condizioni di mare favorevole.
4) In prossimità della prua di un gozzo per la pesca con i tramagli di stanza a Porto Santo Stefano campeggia l’immagine di un delfino. Si va incontro al mare auspicando una relazione con esso se non simbiotica, almeno di prossimità. Il delfino, «pesce» che respira come un uomo e quindi a esso contiguo, cetaceo tradizionalmente assai intelligente, con una antica e consolidata fama di salvatore di naufraghi, è la creatura che meglio può farsi fecondo trait d’union tra l’uomo e il mare. Va qui aggiunto che il delfino compare, come detto, su una barca di tramaglini, la cui rete sovente strappa per cibarsi dei pesci imprigionati tra le maglie. L’evocazione della sua immagine si può pure leggere dunque anche quale invito a non rovinare la rete di posta.
5) Prua e murata di un gozzo siciliano degli anni Cinquanta, l’Assunta, armato con vela latina. Siamo qui al cospetto di un autentico pantheon apotropaico: il dritto di prora tondeggiante e ricurvo in avanti si carica di valenze falliche, corroborato subito più in basso dall’effige di un santo, da un occhio e ancora da altra immagine sacra a cavallo, forse San Giorgio. Alle spalle del cavaliere compare una sirena dalla quale si diparte una lunghissima coda biforcuta e intrecciata. Il tema del nodo è assai caro alla gente di mare, sommamente quello di Salomone, per la sua funzione, appunto, di annodare, bloccare, serrare e quindi disinnescare possibili pericoli. Cingere da prua a poppa questa barca con un nodo pressoché infinito significa fortificarne l’intero scafo. Si notino infine alcuni motivi ornamentali riconducibili a quelli del carretto siciliano. La foto fu pubblicata negli atti del convegno di Etnografia e Folklore del Mare nel 1957.
6) Mascone poppiero di un gozzo catanese che presenta un florilegio di simboli protettivi intercalati da altri di natura floreale ed estetica. L’adunco e lungo agugliotto del timone è ribadito da un corno piegato verso poppa, altro punto critico del natante, soprattutto se a vela e quindi soggetto a strapoggiate e onde montanti da poppavia capaci di intraversare il battello. Segue un’immagine sacra con aureola e corona di nuvole nonché l’ambita e tradizionale preda di chi pesca sullo stretto, il pescespada. La foto compare negli atti del convegno di Etnografia e Folklore del Mare del 1957.
7) Sulla prua di galeoni e velieri nel punto in cui il bompresso si slanciava in avanti, sotto di esso si collocava una statua lignea, la polena, che mentre aumentava il prestigio della nave, spesso ne dichiarava la proprietà grazie alla presenza di una scultura con le fattezze dell’armatore. In diversi altri casi, proprio in relazione al punto specifico in cui la polena era fissata, guardando il mare dall’alto, ancor prima che la sottostante prua ne fendesse la superficie, tale statua era investita di funzioni alle volte protettive e altre aggressive. Per contrastare lo strapotere marino non erano infrequenti creature terrestri altrettanto potenti e possibilmente ringhianti, su tutte il leone, ma pure il lupo e l’aquila. Qui vediamo una creatura leonina che sostiene tra le zampe uno scudo con le iniziali dell’armatore risalente al 1896.
8) Polena lignea, forse lupo, forse cane e dunque fedele all’uomo e deputato alla guardia, che si rivolge all’onda con fauci spalancate e denti ben in evidenza.
9) Sono esistite polene che richiamandosi a creature marine mitiche o reali testimoniavano dell’intenzione di addivenire a più miti consigli con il mare, a esso presentandosi attraverso la vistosa esibizione di suoi proverbiali abitanti scolpiti nel legno. Siamo qui al cospetto di un cavallo marino la cui coda emerge tra le onde, essere che simboleggia una «parentela» tra mare e terra ferma.
10) Polena con le sembianze di un tritone, dunque per metà uomo e metà pesce, nell’atto di soffiare in una conchiglia che con le sue volute spiraliforme ricorda la cornucopia simbolo augurale di ricchezza e fecondità e in questo caso di pesche fruttuose.
11) Tra le figure «di mezzo» destinate a promuovere un dialogo con il mare, a farsi interpreti tra distesa equorea e naviglio la sirena è probabilmente la più frequente. Qui subito sotto il bompresso vediamo una donna che indossa una corpetto slacciato tale da mostrare un generoso seno; dalla vita in giù, repentinamente, la prosperosa figura muliebre si fa pesce. Nella mano destra ha una cornucopia. Quella dei seni esposti al mare è consuetudine variamente interpretabile, simbolo di affinità tra spuma delle onde e montata lattea, di navigazioni da un punto di vista commerciale e alieutico fruttuose e prospere, di vistoso, confortante surrogato dell’assenza femminile per equipaggi composti da soli uomini costretti all’astinenza per interi mesi in mare aperto.
12) Di questa sirena la cui valenza estetica e decorativa è sottolineata dalla doratura dell’intero suo corpo, va però anche notata l’espressione del volto, quella di una creatura che con convinzione, quasi con determinazione guarda lontano davanti a sé. Polena quindi di una creatura che scruta attenta l’orizzonte, a protezione della nave di cui si fa vistoso e difensivo simulacro. In altri casi la sirena, per meglio vedere dinnanzi a sé, porta la mano sopra gli occhi.
13) Immagine pubblicitaria della Cunard, assai conosciuta compagnia di navigazione, la più prestigiosa tra quelle inglesi, che fondata nel 1838, pur mutando nel tempo la denominazione, è ancora oggi attiva. Il suo significativo motto, «take the old reliable», sottolinea l’intenzione di muoversi nella direzione di una modernità non dimentica di un passato da cui attingere. Le sue navi passeggeri, inizialmente con propulsione mista, a vapore e a vela, coprirono innanzitutto la tratta Liverpool-New York. Il riferimento al nobilitante passato della compagnia è qui esplicitamente sottolineato dalla prua di un veliero che esibisce una dorata polena, una figura femminile che quasi prepotentemente emerge da un rigoglio di riccioluti flutti.
14) Imperiosa ed erta prora che termina in un’ articolata composizione statuaria con una giovane su un cavallo marino la cui coda si allunga verso il basso, attraverso alcun morbide volute. Ulteriori fregi, teste leonine e gigli, arricchiscono ulteriormente il complesso scultoreo. Esigenze di rappresentanza e istanze protettive si coniugano dunque in questa lignea e indorata scultura.
15) Granville, in Normandia, è cittadina tradizionalmente legata alla pesca soprattutto da quando, agli inizi del Novecento, fu dotata di un proprio porto. La popolazione locale, impiegata dunque in attività alieutiche e marinare, come in molteplici altre comunità rivierasche, dette vita a cicliche procedure di domesticazione dell’elemento equoreo, partendo dall’immancabile processione per la benedizione del mare. Dagli imponenti e alti contrafforti necessari per fronteggiare le alte maree che si verificano nel luogo, poco distante da Mont-Saint-Michel ciclicamente circondato e poi abbandonato dalle acque, il sacerdote innalza l’ostensorio in direzione dell’orizzonte marino attorniato da chierichetti muniti di turibolo e ceri, e devoti di vari strati sociali.
16) Le Portel nel cantone di Boulogne-sur-Mer, come il nome rivela, fu inizialmente un «porticciolo», benché in un sito lungamente abitato, con evidenze archeologiche di epoca addirittura preistorica, che conobbe un’espansione assai rapida e significativa nel corso dell’Ottocento, unitamente alla vicina e maggiore città portuale di Boulogne. In connessione con l’intensificazione di commerci, pesca e turismo la cittadina cambiò volto ma non vennero meno pratiche devozionali tradizionalmente legate alla benedizione del mare. Nella foto, al centro, il religioso infigge un lungo bastone sormontato da una croce, sulla battigia, laddove mare e terra ferma si incontrano, in un perpetuo gioco di avvicinamento e distanziamento. La pertica crociata ficcandosi sul fondo sabbioso trasmette al mare e alle sue profondità la presenza divina. Giovani chierici con l’immancabile incensiere e assieme a tanti altri ragazzini in prima fila assistono all’acme della cerimonia; dietro di loro donne e uomini che si scappellano, di differenti estrazioni sociali, presenziano anch’essi a codesto pregnante momento.
17) Treboul nel dipartimento di Finistere ha molti santi a cui votarsi tra i quali Saint Pierre, suo patrono, San Vendal, Saint Jean, Saint Jean-Baptiste, Sainte Thérèse. Codesta secolare devozione soprattutto nei confronti di San Pietro e dunque della sua statua tanto pregata quanto, in caso di “inadempienze del santo” percossa, fustigata e graffiata dai devoti, è in buona parte legata all’antico legame di questa cittadina con il mare. Treboul è porto per autentica gente di mare conosciuta per essersi spinta a pescare aragoste sino alle coste di Mauritania e Marocco, altrettanto nota per la pesca di tonni, sgombri e soprattutto sardine. Ruotando quindi l’economia locale essenzialmente sul pesce la comunità ha sviluppato procedure devozionali e protettive vistose e coinvolgenti. Nella foto scattata in occasione dell’annuale benedizione del mare si può notare non tanto e non solo la notevole partecipazione popolare, ma il coreografico e ben studiato coinvolgimento dei giovani di ambo i sessi, con ragazzi debitamente vestiti alla marinaretta e fanciulle, distinte per età, tutte di bianco vestite. Siamo al cospetto di un attento e definito processo di inculturazione giustificato da un rapporto imprescindibile e assai stretto con il numinoso in ragione di mestieri connessi all’alieutica e trasmessi di padre in figlio, preminenti ma pericolosi, che lamentano un inesorabile, tragico tributo di vite perse in mare e che perciò esigono forme di protezione non comuni. Ci sembra significativo, in tal senso, che a Treboul, nella località di Douarnenez, sia presente un cimiteroche accoglie le spoglie dei morti in mare.
18) Il gran consesso di popolo che presenzia e segue l‘imponente pellegrinaggio di Santa Sara la Nera festeggiata dai popoli gitani nel paese di Saintes-Maries-de-la-Mer in Camargue. Il mito fondativo di questa spettacolare festa che annovera versioni parzialmente discordanti, narra di una ragazza dall’incarnato scuro che aiutò Maria Maddalena, Maria Jacobi, detta pure di Cleofa, e Maria Salomè a fuggire dall’Egitto dove, dopo la morte di Gesù, erano iniziate le persecuzioni dei cristiani. Sara, questo il nome della giovane, stese il suo mantello sull’acqua su cui parimenti salirono le tre marie per approdare giorni dopo, sane e salve, sulle coste mediterranee della Francia. Altra variante le dice a bordo di una piccola imbarcazione. Mentre Maria Maddalena lasciò il luogo dell’approdo le altre due marie lì rimasero assieme a Sara. Le loro statue, ogni anno, nel mese di maggio, vengono accompagnate in processione prima sull’arenile e poi direttamente in acqua. Officiano il rito autorità religiose fatte salire su una barca intitolata alle Marie qui raffigurata in una foto risalente al 1935.
19) Nicola Pellegrino, nato a Stiri in Grecia nel 1075, fervente salmodiante che amava recitare a più riprese il Kirie eleison e per questo creduto pazzo, deriso, percosso, decise di imbarcarsi per raggiungere le coste italiane e intraprendere un pellegrinaggio alla volta di Roma. Salito su un vascello diretto a Otranto, riprendendo a pregare in modo compulsivo, fu con crudeltà gettato in mare dall’equipaggio. Incredibilmente non solo non annegò ma precedette all’approdo il veliero da cui era stato scagliato tra i flutti. Fu ben accolto a Trani ove l‘arcivescovo gli offrì vitto e alloggio colpito dal suo candore. In ragione della sua miracolosa sopravvivenza in mare aperto tra le onde è facile comprendere la devozione di pescatori e marinai di Trani per questo santo pellegrino come questa cartolina stampata tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta evidenzia chiaramente.
20) De Panne, in francese La Panne, è una cittadina belga conosciuta per le sue estese spiagge e le sue imponenti dune di sabbia che fronteggiano il Mar del Nord. Per tali sue caratteristiche è da tempo apprezzata stazione balneare. La gente del luogo non rinuncia all’annuale rito della benedizione del mare che la foto documenta. L’immagine è però altrettanto significativa dello sbiadimento delle pratiche devozionali antiche in quelle località rivierasche in cui, più o meno profondamente, è avvenuta una riconversione al turismo. In basso nell’immagine vediamo il clero locale che officia il rito tra due ali di fedeli, mentre in alto, sullo sfondo, del tutto alieni e avulsi da quanto si sta celebrando, i bagnanti affollano, quale realtà a sè, le rive, sotto gli ombrelloni e stesi sulla sabbia.
21) Dal 1237 i gradesi salgono a bordo di barche da pesca e da lavoro per raggiungere l’isoletta di Barbana ove rendono omaggio alla loro Madonna, definita quale «regina del mare e della laguna». Siamo dunque al cospetto di un pellegrinaggio dove la macchina scenica della festa è l’imbarcazione, addobbata a festa, imbandierata e infiorata. Su ogni natante dei tendalini colorati proteggono dal sole ma contribuiscono ad arricchire ulteriormente gli addobbi. Contro la distesa equorea o lagunare che sia, monocromatica, talora grigia, scura, si oppone la luminosità policroma, sgargiante e soprattutto salvifica dei battelli così agghindati. In questa cartolina dipinta, risalente al 1913, le imbarcazioni parate a festa stanno prendendo il largo guidate, in testa, da quella che ospita il baldacchino con clero e autorità.
22) La tradizione di coinvolgere in una processione sul mare i mezzi del proprio lavoro di pescatori e marittimi e quindi, in primis e su tutti, i natanti, per l’occasione vistosamente adornati e decorati non conosce confini. Siamo negli anni Settanta del Novecento in Alabama, nel porto peschereccio di Bayou La Batre dove un nutrito numero di barche attrezzate per la pesca dei gamberi sta mollando gli ormeggi per intraprendere un pellegrinaggio a mare che coinvolge le zone di pesca. Preminenti in questo caso sono filari di bandierine associabili alla consuetudine di esibire nelle ricorrenze festive il gran pavese, formato dalle bandiere del codice nautico internazionale legate l’una alle altre.