1) Lago Vittoria: una piccola zattera realizzata legando assieme qualche tronco probabilmente venuto giù da un albero e utilizzata per la pesca lacustre in acque basse mediante una rete raccolta su un lato del natante. Per sospingere la zattera i due uomini a bordo ricorrono a pertiche ricavate da canne di bambù infitte sul fondo con il fine di darsi una spinta. L’estrema semplicità progettuale e costruttiva è però perfettamente funzionale e rispondente a funzioni e contesti di impiego.
2) Pakistan, fiume Sutlej affluente dell’Indo: due uomini, probabilmente per la necessità di guadare in punti diversi e più volte il corso d’acqua, ricorrono agli otri di due bufali riempiti d’aria. Si tratta sì di galleggianti di un certo ingombro ma dal facile trasporto data la loro leggerezza, arcaici progenitori degli attuali salvagenti a corpetto e come questi ultimi assolutamente rispondenti alla funzione per cui sono concepiti.
4) Perù: zattera in tronchi di balsa dotata di un albero maestro costituito da due fusti congiunti al loro apice ove è assicurata, inferita a un pennone, una grande vela quadra. La soluzione ad A del sostegno per la vela riassume in sé le funzioni che su un naviglio a vela di tipo “occidentale” sono assicurate dall’albero e dal sartiame per garantirne la verticalità e l’irrigidimento contro deprecabili e eccessive flessioni che potrebbero causare la rottura del tronco. L’alberatura è altresì sorretta a prua da uno strallo e a poppa da un coppia di paterazzi. Agli estremi del pennone sono collegati gli ostini per regolare la vela in funzione di rotta e direzione del vento. Si tratta di una zattera concepita per medie e lunghe navigazioni e per questo dotata di rifugio a due spioventi per i naviganti ma soprattutto perché equipaggiata da un mezzo direzionale, un remo terminante in una pala di ragguardevoli dimensioni assicurato alla poppa del natante. Pur nella sua semplicità questa zattera riassume in sé i sistemi di governo essenziali di imbarcazioni a vela di ben più complessa natura.
5) Raffigurazione di una zattera peruviana nell’epoca della colonizzazione spagnola con numerazione degli elementi maggiormente caratterizzanti il natante, sotto il profilo costruttivo e della navigazione. I numeri rimandano a una sintetica legenda. Sono riassunte in questa incisione le caratteristiche principali di codeste robuste zattere Compare in più, a pruavia del trevo di maestra, un’asta di fiocco con relativa vela imbrogliata. La stampa che colloca l’imbarcazione in mare aperto ne fa supporre la “vocazione” a compiere lunghi viaggi lontano dalla costa.
6) Altra zattera, la Jangada, poi evolutasi in ulteriori, più recenti e diverse forme, originaria delle coste settentrionali del Brasile, era ed è costruita in tronchi di balsa, un tempo armata come nell’immagine proposta da una vela quadra, oggi sostituita da una policroma vela triangolare simile a quella latina che consente di stringere il vento, procedendo di bolina. Barca con cui i pescatori di oggi si allontanano anche per decine di miglia dalla costa, ha nella semplicità costruttiva, in un progetto che prevede solo legni e cordami per l’assemblaggio della piattaforma, il suo punto di forza, ovvero notevole flessuosità e conseguente stabilità. Jules Verne ne fece la protagonista di un suo romanzo che per l’appunto si intitola “La Jangada. Ottocento leghe sul Rio delle Amazzoni” pubblicato nel 1881.
7) Friendly Isles, così battezzate da James Cook, ovvero l’arcipelago delle Tonga in Polinesia. Imbarcazioni in cui trovano felice sintesi diversi elementi adottati da alcuni dei natanti analizzati in questa sezione, nello specifico l’armo con vela a chela di granchio o quadra inferita a un pennone superiore, una pedana in travi di legno, in qualche modo figlia delle zattere, sorta di ponte che facilita gli spostamenti dell’equipaggio garantendo al contempo rigidità allo scafo costituito da due canoe assicurate a tale pedana. Sulla piattaforma, al suo centro, in posizione più riparata e sicura, è inoltre presente una “cabina” costituita da una capanna a volta di botte: la presenza di questo ricovero, unitamente alle ragguardevoli dimensioni di siffatto tipo di natante, ne fa supporre l’impiego in mare aperto per navigazioni di più giorni. Nel complesso pare di essere di fronte a una imbarcazione antesignana dell’odierno catamarano.
8) sola di Vanikoro, arcipelago di Santa Cruz altrimenti detto di La Pérouse, in memoria dell’ufficiale francese che vi fece naufragio con le due navi al suo comando, l’Astrolabe e la Boussole nel 1788 [Williams 2016], nel più grande complesso delle Isole Salomone ad est della Nuova Guinea. Piroga scavata in un tronco con attondamento e sfinamento delle sue estremità per attribuirgli le funzioni di prora e di poppa; è dotata sulle mura di dritta di un vistoso bilanciere per pareggiare il piegamento dell’imbarcazione su quel lato. Similmente sulla murata di sinistra è visibile una più contenuta tavola sulla quale si disponeva l’equipaggio sia per pescare, sia per incrementare il peso necessario per ridurre l’inclinazione dello scafo sotto vela, nello specifico una randa a chela di granchio.
9) La zattera in tronchi di balsa costruita dal navigatore, archeologo ed etnologo Thor Heyerdhal con la quale egli, assieme a un equipaggio di sei persone, salpato dalle coste del Perù raggiunse, con l’indispensabile ausilio di venti e correnti favorevoli le isole della Polinesia. Volle in tal modo corroborare l’ipotesi che il popolamento di atolli e arcipelaghi polinesiani, ma pure di più sperdute isole, come quella di Pasqua [Heyerdhal 1963], derivasse da migrazioni via mare originatesi dalle coste peruviane. Colà, popoli esperti nella costruzione di zattere in balsa, impiegate su laghi e fiumi di origine andina, ricorsero ancora a tali natanti per affrontare anche l’oceano. Avevano in Kon-Tiki il loro dio, il cui culto trasposto in Polinesia, era ancora vivo nella memoria degli anziani conosciuti da Heyerdhal. Alla zattera fu dato quindi il nome augurale di Kon-Tiki. L’impresa testimoniò pure di una “filosofia” del navigare di conserva, che assecondava le condizioni di vento e mare per raggiungere le mete prefissate.
10) La carta ben evidenzia il lungo, periglioso, ma pure ben calcolato viaggio via mare della zattera che nel 1947 replicò antiche e similari navigazioni databili intorno al 500 d.C. La Polinesia appare al centro di un triangolo ai cui vertici sono l’isola di Pasqua, la Nuova Zelanda e le Hawaii, mete, queste ultime tre, che Heyerdhal suppose essere state parimenti raggiunte dalle paciose e grandi zattere di balsa.
11) Nativi dell’isola di Kaua‘I: donne e uomini indistintamente, praticano il surf nello spot di Ka-maka-iwa in un’incisione del 1878. Esattamente un secolo prima, durante il terzo viaggio di James Cook nel Pacifico, tra gli sketch che regolarmente venivano eseguiti per affiancare ai diari e alle raccolte scientifiche una documentazione visiva dei luoghi visitati, compare un dettagliato disegno tradotto quindi in una incisione altrettanto particolareggiata, di un nativo che, steso su una tavola, remiga per guadagnare il largo nella baia di Kealakekua. Si tratterebbe della prima testimonianza in assoluto di un surf, o comunque di un bodysurf e della prova che a idearli e impiegarli per primi fossero stati i nativi della Polinesia [Finney 1996]. Archetipo di un andar per mare in forma assolutamente minimalista, attraverso un imprescindibile contatto di pelle con la superficie marina e le sue onde, ciò che diventerà il moderno surf non pare rispondere, in principio, a esigenze pratiche, di navigazione, carico e pesca, ma lusorie e ricreative. Le sue ridottissime dimensioni escludono d’altronde sue pratiche funzioni d’uso. Se la zattera si basava su un equilibrio idrostatico, la minimalista tavola ricercava, con la complicità dell’onda, un equilibrio idrodinamico, in altri termini una planata attraverso la quale assumere la velocità medesima dei marosi, assecondandone le altezze, i frangenti, gli inebrianti, avvolgenti tube.
12) Waikiki nelle Hawaii, 1925: la contaminazione tra surfisti autoctoni, californiani, australiani è oramai in atto anche se la loro “disciplina” in quegli anni non riscuote ancora il successo che avrà a partire dalla seconda metà del Novecento. Il carattere “rigenerativo” e spirituale di questa antica pratica che assume parimenti i connotati di un rito di passaggio ma, pure, di un sistema di riaffermazione identitaria e di status appannaggio degli antichi notabili delle isole, è ciò che i nativi portano in dote ai surfisti occidentali che tale lascito assimileranno risemantizzandolo in chiave esistenziale, agonistica ed economica, sospeso perciò tra «surfing for life» ma pure «surfing for dollars», [George 1992, 32, 103]. Fare surf troverà un suo più stringente significato in termini di appartenenza a “comuni”, a tribes il cui carattere intrinseco era ed è la ricerca di una relazione simbiotica con il mare resa esclusiva dalla capacità di dominarne e assecondarne al tempo medesimo la sua più vistosa, impressionante ed emozionante espressione, l’onda. “Surfare” rimanderà inoltre all’immagine di un esercizio emulativo e narcisistico, a una performance che accomuna ma pure distingue una vasta platea di astanti e deuteragonisti i quali, dalla riva, osservano i loro idoli in mare, che in guisa di accreditati protagonisti ricamano ardite evoluzioni sui discrimini delle onde.
13) Il viaggio, principalmente alle Hawaii, ove il termine “trip” rimanda a un’esperienza dalle multiformi opportunità, prevede, imperdibile, la conoscenza e l’esercizio del surf, reiteratamente ribadito dalla pubblicità coeva e inserito in seno a un’offerta vacanziera ispirata alla libertà, a una “fiera” di vari intrattenimenti, in primis, appunto, a una inebriante, giocosa giostra sulle onde destinata a farsi esperienza iniziatica, “filosofia” significativamente definita anche quale sorta di “Surfers Way of Life” [Blake 2016, 25].
14) Il viaggio, principalmente alle Hawaii, ove il termine “trip” rimanda a un’esperienza dalle multiformi opportunità, prevede, imperdibile, la conoscenza e l’esercizio del surf, reiteratamente ribadito dalla pubblicità coeva e inserito in seno a un’offerta vacanziera ispirata alla libertà, a una “fiera” di vari intrattenimenti, in primis, appunto, a una inebriante, giocosa giostra sulle onde destinata a farsi esperienza iniziatica, “filosofia” significativamente definita anche quale sorta di “Surfers Way of Life” [Blake 2016, 25].
15) Canoe degli Inuit Nenenot, termine con il quale essi definivano se’ medesimi letteralmente “true, real people” [Turner 2001]. A bordo di tali slanciati e leggeri natanti si spostavano lungo le acque del fiume Koksoak e nell’Ungava Bay, nel Quebec settentrionale. Il peso estremamente contenuto di questi scafi non andava a discapito della robustezza ma pure della flessibilità di codeste canoe costituite da un fitto impianto di ordinate di ridottissime dimensioni e da più radi ma più spessi bagli connessi ai bordi superiori degli scafi.
16) Due differenti esemplari di canoe in uso presso gli Oonalashka, popolo residente nell’omonima isola, la più estesa delle Aleutine nell’Oceano Pacifico settentrionale, tra Alaska e Kamčatka. Si tratta di un’incisione ricavata da un disegno tra i molti effettuati nel corso dei viaggi di James Cook il cui buon dettaglio ci consente di apprezzare le similitudini di queste imbarcazioni con i kayak degli Inuit. Una è a voga alternata per due persone di equipaggio e l’altra per un solo vogatore con pagaia a doppia pala. In coperta delle cimette tese trasversalmente consentono di assicurare allo scafo pagaie di riserva e arpioni per la pesca. Lo scafo nella parte superiore della stampa è caratterizzato da una prua suddivisa in due autonome cuspidi ricurve verso l’alto che rendono lo scafo più largo e stabile, meglio in grado di fronteggiare l’onda.
17) Gozzo ligure ad Alassio intorno agli anni Sessanta del Novecento. Ben visibile la “ritrosia” della prua che riprende però slancio grazie alla pernaccia tradizionalmente assai alta rispetto al piano di coperta prodiero.
18) Piano costruttivo di un gozzo ligure progettato da Luigi Nicolosi di Loano nel 1975: sono perfettamente visibili e apprezzabili le accentuate rotondità sia della prua che della poppa, come pure il pescaggio assai ridotto dello scafo, tutte soluzioni costruttive per adeguare questo tipo di gozzo alla natura di spiagge e acque in cui si effettuava il suo alaggio.
19) Come il bragozzo, anche il trabaccolo, imbarcazione adriatica da carico e pesca, ha forme tondeggianti e capienti e una carena contenuta. Suoi elementi contraddistintivi sono gli immancabili occhi di cubia a prora che mentre caratterizzano e rendono immediatamente riconoscibile questo natante, assumono valenze anche apotropaiche. La generosa velatura con molteplici ordini di terzaroli, per consentire al natante di navigare anche con venti tesi e mari formati, è resa peculiare dai vivaci disegni policromi. Non si tratta di semplice espediente estetico: stelloni, losanghe, zebrature, diversi per ogni barca, definiscono l’armatore e consentono di identificare il trabaccolo di sua proprietà da notevole distanza, sia in mare che da terra. Divengono dunque un mezzo di identificazione e controllo attraverso il quale tutti i natanti che hanno preso il largo possono tenersi vicendevolmente d’occhio, in un’ottica di reciproco aiuto in caso di pericolo.
20) Bragozzo sotto vela nella laguna di Venezia che, a causa del poco vento, procede grazie pure alla spinta dei remi. Incisione del 1896 tratta da un dipinto di Pietro Fragiacomo, artista assai incline a soggetti alieutici e marinari prevalentemente in area veneziana e dunque utili anche per il loro dettaglio etnografico. Il bragozzo, barca da carico e da pesca, era contraddistinta da una generosa larghezza e da un’opera viva poco profonda per muoversi agevolmente su bassi fondali.