Mare

Creature mostruose, divinità portentose

   Il mare, quell' immensa distesa di acqua salata che costituisce più della metà del nostro pianeta, si sottrae al di sotto della sua superficie alla vista e al controllo dell'uomo. Gli abissi marini sono sempre stati luoghi di mistero, imperscrutabili e perciò in buona parte incomprensibili.
Nell'antichità, quando le moderne tecnologie usate per sondare le profondità marine ancora non esistevano, il mare era considerato un mondo a sé stante, dimora di esseri giganteschi, pericolosi, divini, sovraumani, mostruosi. L'immaginario del mare è vasto quanto la sua superficie. Nell'elemento equoreo si racchiudono dunque le più inconsce paure di ogni uomo: l'ignoto, l'incontrollabile, l'inconoscibile, lo ctonio. Seguendo le riflessioni sulla mostruosità di Alessandro Dal lago e Massimo Filippi, l'uomo spinto dal disperato bisogno di dominare tutto ciò che lo circonda, produce mostri per nutrire le sue più profonde paure, attraverso un atteggiamento ambivalente nei confronti della mostruosità, che va dal terrore più intenso, alla fascinazione più profonda [Dal Lago, Filippi (eds). 2019].

Intorno al mare nascono e si articolano strategie apotropaiche percettive e definitorie che derivano non solo da un piano empirico ma anche e soprattutto magico. L'uomo di fronte all'impossibilità di circoscrivere la dimensione equorea entro i confini di una realtà tangibile e pienamente verificabile, non ha potuto che risignificarla in chiave, appunto, magica e religiosa, contribuendo alla creazione di un universo mitico fantastico e di un immaginario marino collettivo, in cui convivevano creature mostruose, varie divinità, figure di santi e madonne elette a protettrici di naviganti e pescatori.

Le testimonianze che oggi abbiamo circa le antiche credenze relative all'universo marino provengono da quel ricco repertorio di storie e leggende raccontate dai primi viaggiatori di mare e in molti e differenti modalità perpetuate nel tempo da altri naviganti, marinai e pescatori. Che fossero, come capitò, monaci francescani e domenicani vissuti nel XIII secolo, o navigatori quali Cristoforo Colombo e Ferdinando Magellano, tutti affermarono di aver visto comparire dal profondo abisso esseri incredibilmente giganteschi e agghiaccianti, alcuni con sembianze simili ad animali terrestri, altri con tratti semi-umani e altri ancora di aspetto luciferino e demoniaco. Visioni dettate dall’ignoranza, nel senso letterale del termine, visioni appannate dalla fatica del lavoro quotidiano a bordo oppure da una visibilità compromessa da condizioni meteo-marine temporalesche, visioni sulle quali si sedimentavano idee preconcette, ulteriormente consolidate e «inverate» presumibilmente dai bestiari medievali.
Diversi furono i tentativi, a partire eminentemente dal Medioevo, di classificare gli abitatori del mondo marino, attribuendo loro un’effige che era, nei fatti, una sorta di patchwork, la plasmazione di una immagine che tentava di riassumere i tratti di una creatura differentemente e variamente descritta da più persone di epoche diverse. Vennero create enciclopedie e testi illustrati per descrivere animali di ogni specie, non solo terrestri ma pure marini. L'Aper Marinus Cetaceus rappresentato nel Mostrum historia cum Paralipomenis historia omnium animalium, opera risalente al 1642 del naturalista Ulisse Aldrovandi, ad esempio, possedeva una enorme testa di cinghiale pur essendo creatura del mare, l'Equus marinus monstrosus aveva similmente tratti equini e marini, mentre il Mostrum Marinum humana facie e il Monstrum Marinum Daemoniforme possedevano corpo di pesce e testa umana di aspetto demoniaco [Baldi 2016, 62-78]. Lo zoologo Guillaume Rondelet pubblica nel 1544 De Piscibus marinis; il cosmografo Sebastian Munster edita nel medesimo anno Cosmographia universalis, il naturalista Conrad Gessner dà alle stampe l'Historiae animalium" nel 1558, enciclopedia di creature mitologiche, anche marine, che presentano tratti di alcuni animali appena scoperti nelle Indie Orientali. Questa vastità di testi, enciclopedie e illustrazioni manifestano, dunque, il tentativo di descrivere, classificare e ricondurre creature marine soltanto avvistate più o meno fugacemente e più o meno liberamente descritte dai loro avvistatori «saldandole», riconducendole nell’aspetto esteriore a specie viventi già conosciute [Baldi 2015 b, 151-178].

Balene, capodogli, squali, piovre e tutti gli altri grandi abitanti dell'universo sottomarino furono rielaborati e divennero «base» su cui l’immaginazione umana si scatenò producendo un’ampia e più o meno fantasiosa galleria criptozoologica. Il mare venne così demonizzato, assumendo un'aura ostile e separata dall'umanato contesto terrestre.

Prova dell'inconfutabile credenza nei mostri marini ci giunge dai resoconti non soltanto di singoli soggetti bensì di interi equipaggi. Nel 1848, ad esempio, ai marinai imbarcati sulla nave inglese Daedalus si palesò, rimanendo visibile per un certo periodo di tempo, un mostro enorme tra il Capo di Buona Speranza e Sant'Elena. In direzione di Zanzibar fu avvistato dal vascello Pauline un serpente di mare che aveva imprigionato nelle sue spire niente meno che una balena. Nel 1879, un ufficiale a bordo della City of Baltimore, nel golfo di Aden, vide, come pure videro gli altri imbarcati su questo vascello, un mostro con una grossa testa di cane che sfiorò la superficie per poi tornare negli abissi.

Tra i mostri marini più «celebri» vi è il Leviatiano, creatura che esercita il suo fascino sull'immaginario collettivo da secoli, menzionato come colossale serpente nell'Antico Testamento, che appare come enorme balena nel libro di Giona, quale altrettanto enorme mostro marino nei bestiari medievali, in guisa di creatura che si fa isola nel mito irlandese del viaggio di San Brandano e nella leggendaria storia persiana di Sindbad il marinaio. Il serpente di mare è un'altra spaventosa creatura frequentemente avvistata sia nei mari del nord che del sud. Olaus Magnus, arcivescovo di Upsala nell’opera in ventidue volumi edita nel 1555 Historia de gentibus septentrionalibus ricorda come diversi navigatori avevano affermato di averlo intravisto risalire in superficie. Assai prima già Plinio il Vecchio riportò l'avvistamento di un grosso serpente. Un serpente di mare appare pure nell'opera poetica persiana Shāh-Nāmeh intorno all’anno 1000 d.C. e nell’Edda, raccolta di poemi norreni risalente al secolo XIII d.C.
Il Kraken, gigantesco cefalopode, mostruosa piovra che trascina negli abissi i marinai, è rimasto ben saldo soprattutto nell'immaginario norvegese sino a metà XIX secolo; di lui scrive l’esploratore e missionario luterano norvegese Hans Egede [1686-1758]. Pure gli abitanti delle isole Shetland credevano nell'esistenza di un mostro simile che abitava nelle profondità marine. Ci parla di una creatura simile anche Linneo nel suo "Systema Naturae" del 1735 dove viene classificato fra i cefalopodi con il nome Microcosmus marinus [Costa 1994,133-139].

In un processo di captatio benevolentiae alle creature marine, come anticipato, si attribuivano talora parvenze antropomorfe. Come strategia di controllo sul mare e sulla sua indefinitezza, la barriera tra umano ed animale veniva sovente infranta attraverso l'ideazione di straordinarie figure per metà pesci e per metà uomini. Si trattava di un processo strategico che potremmo definire di approssimazione, di familiarizzazione, di reciproco riconoscimento sulla base di elementi somatici in comune. La sirena, figlia del mare, narrata in miti antichissimi, ora con ali, ora con flessuosa pinna caudale, costituisce la figura antropomorfa per eccellenza che insieme ai tritoni diviene paradigma ideale dell'unione e della contiguità tra uomo e mare. Rimaneva comunque spazio, in questo processo di antropomorfizzazione dell’essere marino e di pari passo di «ittiomorfizzazione» dell’essere umano, per un’ambiguità non risolvibile. Tanto belle quanto pericolose, le sirene potevano trarre gli uomini in inganno ammaliandoli. Numerose leggende si crearono attorno a loro in tutto il mondo, dai greci fino all'estremo nord, tra le popolazioni lapponi. Dipinte sulle murate delle imbarcazioni dai pescatori, oppure poste in forma di polene sulle prue dei velieri, testimoniano di questo meccanismo di avvicinamento e di distanziamento che ne fa entità augurali ma pure nefaste. In Russia e presso diverse popolazioni slave, le Rusalke, divinità, spiriti e demoni di fiumi e laghi, avevano l’aspetto di bellissime sirene portatrici però di temporali e disastri. Partenope, celeberrima sirena narrata nell'Odissea che tentò di far innamorare Ulisse, sconfitta dal supremo intelletto umano, morì tra gli scogli di Megaride; trovata dai pescatori fu sepolta e venerata. Oggi si può ammirare la sua statua in piazza Sannazzaro a Napoli, nelle prossimità di Mergellina [Moro 2009].

Su un fronte diverso, sempre nella direzione di venire a patti con le profondità marine, c’è chi ha inteso prefigurarsele quali sedi di divinità antropomorfe che negli abissi avevano i loro regni. Regni che talora permettevano una comunicazione, addirittura una frequentazione da parte dell’uomo di mare del suo alter ego divino marino. Un’antica bylina russa ci narra di Sadko, mercante e navigante che si inabissò innamorandosi della principessa figlia del re degli abissi che sapendolo sposato gli consentirà di riguadagnare la superficie per consentirgli di riunirsi alla moglie Liuba [Baldi 2015 a, 106-112]. Costituiscono, tali divinità, un ulteriore tentativo di definire l'indefinitezza dell'elemento equoreo attraverso un ordine terreste. Ricordiamo il dio babilonese delle acque Tiamat, Visnu, divinità maschile vedica, metà pesce e metà uomo che galleggia sul serpente marino infinito Ananta. Passando alla mitologia greca ecco Poseidone assieme a Tritone, figlio suo e di Anfitrite una delle Nereidi, divinità protettrici del Mediterraneo che dalle profondità risalivano alla superficie del mare per soccorrere i pescatori. Nell’Odissea incontriamo inoltre Leucotea, dea bianca del mare.
Ugualmente i Melanesiani delle isole Salomone raffiguravano gli spiriti del mare come umani «pescificati». Nella mitologia azteca si parla di Chalchiuhtlicue, dea dell'acqua dei mari mentre Repun Ka – Kamuy è dea dell'acqua e delle tempeste, spirito dell'orca e del mare in seno alla mitologia degli Ainu, popolo dell'isola di Hokkaido. In questo rapido excursus ricordiamo infine Yam, divinità delle acque per la religione cananea, Lir e Manannan divinità del mare e del tempo nella mitologia celtica.

Nel Mediterraneo e presso molte altre popolazioni rivierasche e marinare di fede cristiana sono i santi a soppiantare le multiformi divinità arcaiche di cui abbiamo appena detto. La relazione con tali entità è la medesima: ad esse ci si rivolge eccezionalmente in occasione di pericoli non più sventabili ricorrendo soltanto alla propria sapienza marinara, esse si invocano, si pregano e si festeggiamento nel corso delle annuali feste patronali, nelle processioni a mare, nelle periodiche benedizioni dei natanti e degli ingegni di pesca.
Francesco di Paola, uno dei più celebri in Italia oggi, divenne santo protettore della gente di mare dal 1943. La Vergine Maria, o Stella Maris, è invocata come protettrice dei marittimi. Anche Sant' Elmo figura quale protettore dei marinai per non dire di San Nicola.
Accade assai frequentemente che ogni comunità marinara elegga un suo specifico santo, una sua particolare madonna a protezione della propria gente di mare. Esistono dunque figure sante evocate in contesti più definiti e ristretti come San Pietro González religioso domenicano spagnolo venerato come santo ed invocato dai marinai di alcune regioni iberiche, Santo Barnaba, protettore dei marinai di Sciacca, San Bartolomeo, protettore dei pescatori nell' arcipelago eoliano, San Procolo a Pozzuoli, San Paterniano a Cervia, San Giusto a Trieste, San Martino di Tours a Riccione, Santa Giulia di Corsica a Livorno, Santo Stefano il cui nome i suoi devoti hanno dato anche al paese toscano in cui vivono.

Se invece le «preferenze» ricadono su uno dei santi più conosciuti, come il menzionato Francesco di Paola, la sua iconografia, il modo di raffigurarlo, dipingerlo, scolpirlo, vestirlo e addobbarlo rivelerà delle specificità e delle differenze da luogo a luogo. In tal modo ogni popolazione stigmatizza una propria, più intima e personale relazione con il «suo» santo e con le di lui particolari, più potenti ed efficaci capacità, con le sue portentose, salvifiche virtù.